Pensava si trattasse di uno scherzo, Silvia Marchesan, friulana di Codroipo, ma vissuta un po’ ovunque nel mondo, là dove la sua dedizione per la chimica l’ha portata. Prima Edimburgo, poi Londra, quindi in Finlandia e poi agli antipodi, in Australia. Nel 2013 il ritorno in Italia, l’abilitazione all’insegnamento come professore Ordinario, una medaglia Vittorio Erspamer (vince nel 2017 la primissima edizione, dedicata ai giovani ricercatori under 40) e una cattedra al dipartimento di chimica farmaceutica dell’Università di Trieste, dove è anche a capo del laboratorio.

E adesso, giusto una settimana fa, l’ultimo riconoscimento in ordine temporale: la rivista Nature Index, supplemento annuale di Nature, l’ha inserita tra gli undici migliori giovani ricercatori al mondo, le cosiddette Rising Stars, le stelle nascenti della moderna scienza. La selezione è avvenuta unicamente in base alla pubblicazioni scientifiche prodotte dai vari scienziati, individuando tra gli oltre 500 in tutto il mondo che hanno pubblicato almeno un articolo in una delle 82 riviste contenute nel Nature Index, color i quali mostrato una più significativa crescita delle citazioni anno su anno. Insomma, vince chi pubblica di più e meglio, con maggiori mention.

Due gli italiani: oltre a Silvia Marchesan, arrivata sesta fra gli undici più votati, in classifica troviamo anche Giorgio Vacchiano, 38 anni, milanese, in forza al Dipartimento di Scienze Forestali dell’Università Statale di Milano.

“Vorrei che questo riconoscimento fosse per tutte le donne che fanno ricerca, anche quelle che stanno vivendo momenti di difficoltà. Tenete duro, siamo sulla strada del cambiamento: speriamo che l’Italia capisca l’importanza di parificare gli stipendi degli scienziati, di aiutare le donne che fanno scienza e hanno una famiglia, di snellire la burocrazia che intasa la voglia di sperimentare“. Così parla a caldo, subito dopo aver ricevuto la notizia, ancora incerta se crederci o meno.

La sua ricerca sulle superstrutture è descritta nel suo sito web www.marchesanlab.com.

Se volete incontrarla di persona, la potete trovare al Trieste Next 2018, Festival della Scienza che si terrà nella città friulana dal 28 al 30 ottobre, con tema il sottile confine fra biologico e biotecnologico. La Marchesan parlerà delle ricerche attraverso cui ha creato l’idrogel che le è valso questa speciale menzione.

 


Intervista di Giacomo Talignani per Repubblica

Che effetto le ha fatto essere riconosciuta come una delle scienziate che ha “il mondo ai suoi piedi (dal titolo di Nature, ndr)”?

“Non me lo aspettavo davvero, sono rimasta stupita: soprattutto perché io di base sono una chimica e non sempre otteniamo questi riconoscimenti. Credo che abbiano voluto premiare l’interdisciplinarietà a cui lavoro e lo sviluppo di materiali sostenibili e accessibili a tutti”.

 

In cosa consiste la sua ricerca nel laboratorio dell’Università di Trieste?

“Lavoriamo sulle molecole e le super strutture. Lo spiego così: immaginate i mattoncini di lego come molecole che, se composte, possono dare vita a una super struttura, diciamo una cattedrale. La cattedrale potrebbe essere ad esempio un materiale antibatterico a basso costo, o un altro da usare in campo ospedaliero o nelle costruzioni. Ma questi mattoncini bioattivi, scomposti o composti, possono avere proprietà differenti. Noi lavoriamo per esempio sulla possibilità di fermare i loro principi bioattivi una volta scomposti, ma di ottenerli quando creano la cattedrale. E’ un modo on-demand per avere materiali sostenibili”.

 

L’Italia le ha garantito le risorse sufficienti per il suo lavoro?

“Finiti i dottorati all’estero avrei potuto facilmente lavorare lì. Ma sono tornata per questioni personali, dato che ho un figlio di 4 anni. Qui ho trovato un laboratorio dove poter sperimentare: il problema, oltre alla risorse, è che siamo affogati dalla burocrazia. In Italia non puoi comprare uno strumento scientifico da 120 euro senza passare da lungaggini e una infinità di carte. Serve più flessibilità e abbattere gli iter burocratici per fare davvero buoni studi”.

 

Come è essere mamma e scienziata?

“Difficile, non lo nascondo. Ma ho un figlio comprensivo: a 4 anni ha già capito che la mamma deve stare spesso al pc o andare all’estero ai congressi e ha tanti appuntamenti (il prossimo, ricorda, è al Trieste Next, ndr). Io volevo che mio figlio crescesse qui, anche per questo sono tornata: per la famiglia e per condividere le mie competenze con giovani scienziati italiani. Ho riportato in Italia ciò che ho imparato. Qui però ci sono ancora troppe poche strutture per conciliare maternità e lavoro, non a caso molte colleghe hanno un solo figlio”.

 

Si spieghi meglio. Si riferisce ai nidi nei luoghi di lavoro?

“Alcuni istituti li hanno, ma sono pochi. Io dico che all’estero ci sono donne che sono direttrici di laboratorio, che gestiscono fondi da milioni di euro e hanno tre figli. Da noi la maggior parte delle colleghe hanno un solo figlio se va bene. Se vuoi allargare la famiglia sai a quali difficoltà vai incontro. E’ una questione di Paese e culturale: bisogna fare di più”.

 

Come ad esempio stipendi parificati per donne e uomini nel campo scientifico?

“Sì, assolutamente sì. Sono molto orgogliosa di aver ricevuto questo riconoscimento come donna e ricercatrice. A livelli alti, di professori associati e ordinari, la differenza di genere è marcatissima. Spesso anche all’estero. Davvero, io non ho un grande ego: ma non nascondo che quando è uscita la notizia di Nature molti siti magari hanno messo solo la foto del collega Vacchiano, a cui faccio i complimenti. Però mi sono chiesta il perché: forse per cultura c’è ancora una grande divisione. A volte vado a congressi e su capi laboratorio sono l’unica donna su una ventina di persone. L’Italia ha i cervelli, ha le potenzialità: lanci il messaggio a tutti di come si possono abbattere queste differenze e sarà un bene per chiunque”.